Il saggio parte dall’osservazione dello scenario di crisi mondiale in cui ci troviamo e dalla difficoltà della politica internazionale ed italiana di ampliare l’analisi della crisi e di analizzare con maggiore specificità i motivi della sua origine, nonché le nuove soggettività e le nuove relazioni di forza che in essa si manifestano.
In realtà, in Italia si è parlato e si parla quasi esclusivamente di una crisi economica generale ma si tratta nei fatti di una crisi con molteplici braccia, una crisi che, oltre che economica, è anche finanziaria, ambientale, alimentare, migratoria, energetica, della società e della democrazia.
Stiamo vivendo, cioè, una crisi che, per la prima volta, è una crisi strutturale e verticale del modello di società occidentale, una crisi cioè del nostro paradigma di civilizzazione, ovvero, ancora, una crisi dell’idea che noi abbiamo sviluppato della modernità dall’illuminismo in poi.
La risposta che la politica ha dato a questa crisi, muovendosi nel solco dell’attuale modello socio economico di sviluppo, è una risposta assolutamente debole.
“Rilanciare la produzione per rilanciare i consumi” è lo slogan che ci viene quotidianamente proposto per uscire da questa empasse, ma ormai non è più possibile immaginare la soluzione di queste crisi all’interno il modello di sviluppo che le ha provocate: non è possibile spingere verso un concetto di crescita economica infinita a fronte di un pianeta con le risorse finite.
La terra, a tutt’oggi, non riesce già più a produrre il 30% del fabbisogno delle produzioni e dei consumi degli esseri umani e, addirittura, se, per assurdo, il modello di sviluppo occidentale fosse esportato in tutto il mondo e se tutti gli uomini in tutti i posti della terra consumassero alla stessa maniera, ci sarebbe bisogno di 5 pianeti in più.
Il buen vivir, dunque, la vita intesa come interconnessione stretta tra comunità umana e cicli biologici, il vivere in modo che l’Homo Oeconomicus non sia più inteso come esclusivo dominatore della terra bensì come amministratore di un bene comune, un approccio economico e di vita che superi definitivamente il neo liberismo, diventa un’ emergenza ed un’esigenza mondiale!!!
Tuttavia, è solo in alcune parti del mondo, in America Latina, in Africa, in India, che sono stati raggiunti risultati eclatanti in questo senso!
In Bolivia ed Equador, ad esempio, la Costituzione è stata rinnovata ed ha messo al centro la vita in armonia con la natura, natura della quale tutta la comunità è parte.
In questi paesi concetti come educazione popolare, mutualismo, giustizia sociale, creatività e decolonizzazione del potere sono gli strumenti e le pratiche di una nuova democrazia della Terra.
Queste testimonianze ci confermano che è possibile coniugare l’economia con la difesa dell’ambiente, che è possibile sperimentare un nuovo patto sociale e ripensare le forme della rappresentanza, ed è possibile nella misura in cui si riesce a decolonizzare il proprio immaginario fino al punto da riscrivere un’idea nuova della democrazia che parte da una costante e continuo aumento della partecipazione alle scelte della vita pubblica e comunitaria da parte dei cittadini.
Quello che salta agli occhi, però, è il fatto che, mentre i popoli del Sud del mondo fanno grandi passi in avanti nel concretizzare la loro protesta e, creando alternative credibili e praticabili, prospettano un reale cambiamento nella concezione e nell’attuazione di nuovi stili di vita, il Nord del mondo sembra rimanere indietro e non accorgersi del suo essere obsoleto.
A ben guardarsi intorno, comunque, si possono riconoscere anche in Italia piccoli segnali di quella che viene definita la geografia della speranza, ovvero i segnali positivi che provengono da quelle che è bene definire società in movimento più che movimenti, le quali hanno introiettato la necessità di difendere i beni comuni e quindi di allargare la democrazia e la partecipazione e che giornalmente lottano non solo per difendere i beni comuni ma per affermare un’idea della democrazia più ampia.
E parliamo, ad esempio, delle comunità interessate da conflitti ecologici ad es. le reti e i comitati contro le centrali a carbone e a turbogas (come accade anche a Benevento), i comitati contro le discariche, i movimenti No Tav e No dal Molin e tantissimi altri.
Queste società in movimento sono spesso etichettate come “quelli del no” ma in realtà dietro ogni no ci sono molti sì: i si per un nuovo modello di sviluppo, per la messa in sicurezza e la bonifica del territorio, per la difesa dei beni comuni, per una economia più giusta ed ecologicamente orientata, per la riduzione di consumi inutili e controproducenti, per la diffusione della mobilità e delle energie sostenibili, per la democrazia partecipata, per l’agricoltura organica, per la raccolta differenziata, il riuso e il riciclaggio…Questa geografia costruisce la sua azione e le sue proposte. Proposte, spesso ignorate dai media e dalla politica istituzionale, che tendono alla realizzazione di un modello di economia diverso da quello attuale e di una democrazia includente. Una democrazia che sempre più spesso ed in maniera cronica tende ad escludere quelli che hanno deciso di tenere un altro passo rispetto alla schizofrenica, quanto improduttiva ed efficace, velocità imposta dalla competizione economica globale che induce a trasformare in merce qualsiasi cosa.
C’è, dunque, anche in Italia una geografia della speranza che si sintonizza perfettamente con tutto ciò che di nuovo arriva dall’America Latina, dall’India, dall’Africa, c’è una connessione umana, politica, sociale, indipendente dalla diversità linguistiche, con le popolazioni di Bolivia ed Equador.
Credo valga la pena di farsi coinvolgere dall’esperienza di questi paesi prendendo spunto dall’articolo 8 della costituzione boliviana: «Lo Stato assume e promuove come principi etici e morali della società plurale le seguenti raccomandazioni: non essere pigro, non essere bugiardo, non essere ladro, vivi una vita buona e armoniosa in una terra senza male e avviata su un cammino nobile».
Riformare in questo senso la nostra idea della vita e delle relazioni, ripensare il concetto della democrazia in chiave partecipativa, rimettere al centro della scena del progresso, dello sviluppo e della modernità i territori e le persone in carne ed ossa, potrà con una buona probabilità permettere alla parola “Krisis” di perdere l’accezione negativa che attualmente la caratterizza e le farà riacquisire il significato originario di “momento che separa una maniera di essere da un’altra differente”.
Questo mi sembra un ottimo spunto di riflessione per tutta la politica italiana ma, in particolare, per i nostri politici ed amministratori locali, per i sindaci ed aspiranti tali che nel Sannio affronteranno le elezioni amministrative della prossima primavera.
E’ davvero così distante il Sud del mondo da San Giorgio del Sannio, ad esempio?
Non siamo anche qui, nel paese dei fiori e della cortesia, schiavi di una ormai da decenni fallita esplosione economica in chiave commerciale?
Non siamo forse anche noi parte, consapevole e muta, del ciclo della diossina che, dall’incendio del capannone Barletta in poi, si insinua silenziosa nella nostra terra e ci viene riproposta sotto forma di frutta e verdura o di uova o di carne da macellare?
Non siamo forse anche noi vittime della cementificazione selvaggia che ci hanno “venduto” come necessaria nell’ottica del futuro sviluppo in chiave tecnologica e di collaborazione con l’Università del Sannio, cosa che avrebbe portato qui a San Giorgio centinaia di nuove famiglie in virtù dei centinaia di posti di lavoro che sarebbero stati creati proprio in quei settori?
Non viviamo forse un deficit di partecipazione democratica tale che gli amministratori decidono di testa propria di spendere i soldi del Comune per la costruzione di un inutile, storicamente improprio nonché brutto monumento piuttosto che per le necessità reali del paese?
Non siamo anche noi partecipi di quel sistema economico dominante in cui il lavoro è ridotto meramente ad una merce?
Non siamo anche noi protagonisti di una continua e costante deruralizzazione in virtù di un PUC scellerato e dell’illusione urbanistica di un paese, quello dei fiori e della cortesia appunto, che del suo verde avrebbe potuto fare un motivo trainante del suo sviluppo in chiave ecologica?
La prospettiva di recuperare e sviluppare ciò che siamo, ovvero uomini e donne inseriti nel ciclo naturale, la prospettiva di passare da Homo Oeconomicus inteso come dominatore del mondo e della natura a quella dell’uomo amministratore di un bene e di beni comuni a tutti gli uomini, non è solo una suggestione ma è una visione che ci permetterà di dare ai nostri figli un futuro ed una vita sicuramente armonica e felice.
Nessun commento:
Posta un commento